Edoardo Maragliano: padre fondatore della Società Ligure di Salvamento
Di seguito si riporta la versione integrale dell’articolo “Maragliano medico in prima linea” di Massimo Zamorani, pubblicato su Il Secolo XIX del 31 luglio 2008
ANCHE NEL 1908, cento anni or sono, magnifico rettore dell’Università di Genova era un medico: Edoardo Maragliano, nome già famoso nel mondo. Dalla Russia era continuo il flusso degli ammalati di tubercolosi che arrivavano a Genova per essere curati dal siero del dottor Maragliano e altrettanto numerosi i tedeschi e gli austriaci. Era l’unico italiano citato nell’edizione 1899 del “Merck’s Manual”, il prontuario pratico americano di farmacologia per medici che ancor oggi fa testo nel mondo: “Serum, Antituberculous, Maragliano: antitoxin against Polmonary Tuberculosis”.
Edoardo Maragliano, capostipite di una dinastia di medici che è parte della storia di Genova, era nato nel 1849 e dopo aver frequentato il liceo Colombo conseguì la laurea in medicina nel 1870, a soli ventun anni di età. Nel 1881, trentaduenne, ottenne l’insegnamento di Clinica medica dell’Università di Genova che mantenne per 41 anni, primato verosimilmente ineguagliabile. Un’attività di insegnamento e di ricerca estesa, documentata da 2453 pubblicazioni originali, ma il suo nome resta legato allo studio e alla cura della malattia polmonare, di cui è stato indiscusso pioniere.
Ancora alla fine dell’Ottocento era radicata convinzione nel mondo medico che la tubercolosi fosse un’infezione atipica e che non fosse possibile ottenerne l’immunità. Si tenga conto che la Tbc allora imperversava soprattutto nella fascia di popolazione più povera ed era una vera piaga sociale. Maragliano si pose l’obiettivo di immunizzare l’organismo umano contro il flagello e, in occasione del Congresso Internazionale di Medicina di Bordeaux del 1895, suscitò una vivace reazione di diffidenza e incredulità sostenendo la possibilità di stimolare nell’uomo la produzione di anticorpi contro l’infezione tubercolare.
Ben certo di essere nel giusto, Maragliano continuò ostinato nella ricerca e nella sperimentazione. Con curiosità i genovesi videro affluire nell’Istituto per lo studio della tubercolosi e delle malattie infettive” sito in Piazza del Popolo (ubicata nei pressi della Foce, oggi non più esistente) mucche, pecore, cavalli, nei quali veniva iniettato un vaccino di bacilli Koch uccisi col calore. Gli animali erano poi salassati e con il siero che se ne ricavava, ricco di anticorpi, venivano curati uomini, donne, bambini.Al congresso di Madrid nel 1903 lo scienziato genovese annunciava al mondo medico di aver praticato con successo nell’uomo la sieroterapia antitubercolare. L’anno seguente, al congresso di Filadelfia, con orgoglio affermava: «Le mie ricerche, cliniche e sperimentali, che durano ormai da 15 anni, mi conducono ad affermare che è possibile attuare una terapia specifica della tubercolosi, che è possibile immunizzare l’organismo umano». E’ proprio di quell’ epoca il delicato diario di una giovane russa Anastasia Civetaieva, pubblicato dalla Sagep dieci anni or sono, che racconta di essere arrivata con la famiglia a Nervi, di aver preso alloggio alla “Pension Russe” a Capolungo, in via Aurelia 25, dal cui giardino si poteva scendere alla scogliera e al mare. “Qui trascorse il Natale 1902 e il Capodanno 1903 e la salute della madre Maria Aleksandrovna registrò un miglioramento, corroborata dal clima e dalle nuove terapie cui la sottopose il dottor Mangiai, soprattutto il nuovo prodigioso siero del dottor Maragliano.”
Nel 1900 il professore venne nominato Senatore del Regno e ciò lo indusse ad affrontare i problemi dell’Università e della Sanità pubblica. L’ospedale maggiore genovese passava da Pammatone a San Martino e il 24 maggio 1914 il re Vittorio Emanuele III° e la regina Elena assistevano alla posa della prima pietra della nuova Clinica Medica in viale Benedetto XV. Proprio un anno dopo l’Italia entrava nella Prima guerra mondiale e pochi giorni prima, in occasione dell’inaugurazione del monumento ai Mille a Quarto, al discorso interventista di Gabriele D’Annunzio e all’intervento di Mario Baistrocchi, ci fu un’affollata, entusiastica riunione nell’Aula Magna presieduta dal rettore Maragliano, che pure volle essere mobilitato nonostante l’età non più giovanile e con il grado di maggior generale medico si impegnò nel servizio sanitario militare.
Lasciata la cattedra di ruolo, continuò l’insegnamento con i corsi annuali di perfezionamento della Scuola di Tìsiologia. Aveva fondato il primo dispensario antitubercolare italiane e promosso una efficace campagna anti Tbc. Dal matrimonio con Eufemia Brovero Della Rovere ebbe tre figli, tutti e tre medici: Dario, Vittorio, Giulio. Di terza generazione è oggi Edoardo, figlio di Giulio, che a sua volta ha un figlio medico, Alberto, ed è titolare dell’azienda farmacologica fondata dal nonno: la PIAM, con sede in via Padre Semeria. Era un bimbo quando l’avo lasciò questo mondo. Lo rammenta vestito di scuro e con le ghette. La PIAM, proprio in omaggio al fondatore, è oggi l’unica azienda italiana a produrre quei farmaci per la terapia antitubercolare come l’isoniazide e l’etambutolo, che nessun altro laboratorio produce più per via del prezzo modesto che non consente larghi margini di profitto. Sono però necessari.
«La malattia è tornata a diffondersi – dice il dottor Maragliano – ed è in aumento soprattutto perché gli ammalati, in gran parte immigrati extracomunitari, non hanno la possibilità di curarsi come si deve. Si tratta infatti di cure lunghe e complesse: come tre farmaci da assumere per sei mesi o più. Costoro non riescono a seguire queste terapie, che peraltro assicurerebbero la guarigione». Un ritratto vivo del pioniere della lotta contro la Tbc emerge dall’intervista di un celebre giornalista e scrittore, Corrado Alvaro, pubblicata su “La Stampa” del 22 febbraio 1939, quando il grande medico era prossimo al novantesimo compleanno e lo aveva accompagnato nel giro di visita agli ammalati. “Non lo avevo visto sorridere nelle due o tre ore in cui gli ero stato vicino, ma ad un tratto, curvo sul letto d’una giovane con le guance infuocate dalla febbre, disse qualcosa che fece sorridere tutti attorno e sorrise anch’egli, passandole una mano sulla fronte”.
Morì il 10 marzo 1940 e il corteo funebre fu seguito, si può dire, dalla città intiera. Le spoglie furono tumulate nel famedio di Staglieno, dove riposano i genovesi illustri. Al suo nome vennero dedicati il reparto pneumologico di San Martino e la biblioteca del dipartimento universitario di medicina interna, ma non una via cittadina. Però la sua memoria è sempre più viva che mai a livello popolare, tanto che di fronte a un evento irreparabile si sente ancora dire: nu po’ fa ciù ninte manco Maragiàn.
Fonte: Massimo Zamorani – Il Secolo XIX del 31/07/2008
Immagini: Il Secolo XIX